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Nato vivo

Siamo giunti in fondo.
Il 20 dicembre è stata una giornata di grande pace interiore, sia per me che per Giacomo.
Siamo arrivati puntuali in ospedale, mano nella mano.
Sorridenti e sereni. Dovevamo solo andare in contro al nostro destino, nulla più dipendeva da noi.
Abbiamo atteso molto prima di poter dare il via al nostro momento, almeno cinque ore… e si sa che le attese siano la parte peggiore.
Siamo stati attenti a non svegliare i nostri demoni. Abbiamo discusso dei dettagli della ristrutturazione di casa nostra, come se la nostra vita non fosse in pericolo.
Mi ero ripromessa di avvisarlo che c’era un documento in cui gli lasciavo detto ciò che non gli avevo mai detto… ma non ce l’ho fatta. Con un po’ di scaramanzia ho voluto pensare che se avessi taciuto sarei sopravvissuta per forza.
Nello stesso tempo ero certa che avrebbe cercato un documento se mi fosse accaduto il peggio.
Sono stata accompagnata in sala operatoria dopo aver salutato Giacomo e il nonno Domenico. Un saluto che non ho voluto avesse il sapore dell’ultimo.
Ho portato con me un fazzoletto di carta, perché sapevo che avrei pianto: in ogni caso avrei pianto.
Poi mi sono affidata, senza alcuna altra scelta possibile, alle mani che hanno manipolato, infilzato e rimestato il mio corpo.
C’erano un sacco di mani… diversi volti, parole, discorsi, battute e sorrisi.
Una buona atmosfera che non ho saputo cogliere del tutto, mentre cercavano una vena, mentre non riuscivano ad infilarmi il catetere, mentre mi ruotavano di qua e di là per infilarmi un ago nella schiena che non voleva trovare la via giusta.
Voltata su un fianco, ancora col bruciore lancinante del catetere e stringendo in mano il mio fazzoletto di carta, lo sguardo si è posato su un aggeggio che dovrebbe servire per
aspirare fluidi. Aveva un contenitore trasparente macchiato di rosso, sembrava sangue, ma immagino non lo fosse… Mi sono detta che quella sarebbe stata davvero l’ultima volta e ho temuto di non reggere.
A me toccavano i tubi, i tubicini, gli aghi e un mucchio di sconosciuti che rivoltavano il mio corpo nudo su un tavolo ferroso, nel mezzo di una grande stanza, sotto una luce puntata su ciò che non potevo vedere da dietro il telo verde, che puzzava di plastica, cui era stato nascosto il mio volto.
Ho tenuto duro e stretto il mio fazzoletto di carta.
Quindi il viso familiare della dottoressa M., nel camice di un colore indefinito vicino al vinaccia, sorridente e sollevato perché finalmente quasi al traguardo, poi il secondo viso
familiare, il dottor C.. Mi sono sentita rassicurata: sarei stata operata dai due medici di cui mi fidavo di più, non potevo sperare di meglio.
Mentre mi sentivo soffocare e a tratti svenire, mentre combattevo il panico di non sentire il pianto di mio figlio e di morire, ho sentito la dottoressa M. esclamare: «Eh no! Due giri di cordone serrati intorno al collo!».
È stato un attimo di vuoto, la mia mente non ha saputo mettere insieme alcun pensiero, finché ho sentito un pianto… il suo pianto… e ho pianto.
Ho pensato che, contrariamente al solito, il suo pianto fosse addirittura gradevole!
L’anestesista ha esultato, esclamando che mio figlio «aveva due palle così!».
L’hanno portato via per le prime cure, ma dopo un tempo ragionevole ancora nessuno era venuto a mostrarmelo. Ho chiesto se andasse tutto bene, l’anestesista mi ha rassicurata, ma ancora nessuno me lo portava.
«Io non lo vedo… non lo vedo…»
Sull’ingresso della sala operatoria hanno portato l’estremità dell’incubatrice in cui era stato messo e mi hanno mostrato i piedini… solo i piedini.
Poi l’hanno portato via.
Sapevamo che nascere con un paio di settimane di anticipo poteva significare una maggiore difficoltà di adattamento per i polmoni, era nel conto l’opzione dell’incubatrice, ma non l’avevo realmente fatta mia.
Lui non era su di me. Non l’avevo con me.
Poco dopo mi hanno riportato in camera e i primi momenti sono stati di puro assestamento: l’anestesia che dava tremori terribili, le gambe immobilizzate, il pannolone, il catetere, l’ago canula uscito di vena, un altro buco… la flebo, la morfina… e lui che non c’era e non accennava ad arrivare.
Giacomo ha avuto una cura per me, una delicatezza e una calma nello spiegarmi che lo stavano aiutando a respirare perché da solo faceva fatica. Lo avevano alimentato per cercare di calmarlo, ma era talmente vorace che gli era andato di traverso, così gli avevano messo una flebo…
Sulla flebo sono definitivamente crollata: lo hanno infilzato, anche lui è stato infilzato… lo so che fa male, lo so bene! Io non ero con lui, io non c’ero… io non sapevo nemmeno ancora che volto avesse.
Non era importante che non fosse gravemente in pericolo, né che fosse a pochi passi da me: nella realtà dei fatti io, ancora una volta, ero svuotata nel ventre e con le braccia vuote.
Era un dolore incontenibile, ho pianto fino a farmi gonfiare gli occhi, tanto da farmi sgridare dall’ostetrica, tanto da chiamare la neonatologa e farmi rassicurare, ma non c’erano parole adatte… L’unica cosa in grado di lenire il mio dolore era darmi mio figlio fra le braccia.
Hanno mandato via Giacomo, anche se ero disperata, anche se ero uscita dalla sala operatoria da tre ore o poco più, anche se nostro figlio non stava bene.
Mi sono trovata sola, nella stanzetta vuota, nel buio della notte, senza potermi alzare e col pulsante delle chiamate disinserito dalla spina.
È stata una lunga notte, una notte difficile.
Finché mi sono data un obiettivo: andare io da lui il mattino seguente.
Così mi sono imposta di smettere di piangere, ho imbevuto due fazzolettini d’acqua e me li sono piazzati sugli occhi: non potevo presentarmi a mio figlio gonfia come una zampogna!
In un mondo perfetto le cose sarebbero andate diversamente, ma questo è il mondo reale e le cose vanno come vanno.
Dovevo reggere ancora un pochino, ancora fino all’indomani.
E l’indomani, appena estratto il catetere, su una sedia a rotelle sono andata a vedere mio figlio.
Ancora una volta con un fazzoletto di carta stretto in mano.
Giacomo mi ha accompagnato fino all’incubatrice ed io dalla sedia mi sono sporta fino a guardare il viso del mio bambino da dietro il vetro che ci separava.
Ho tenuto. Ho tenuto tutto, talmente tutto che non è uscita nessuna emozione. Ho pensato che poteva anche non appartenermi, che non lo riconoscevo davvero, che non sapevo
se era davvero lui dentro di me… che non dovevo piangere perché non potevo ancora toccarlo, annusarlo, stringerlo, baciarlo e sentirlo mio, quindi dovevo tenere, ancora un
pezzetto, finché l’avessi avuto fra le braccia e nessuno sapeva dirmi quanto avrei dovuto aspettare.
Nel pomeriggio siamo tornati da lui, io sulle mie gambe.
Inaspettatamente mi hanno chiesto di scoprire il seno, me lo avrebbero fatto toccare, accarezzare, stringere e annusare… me lo avrebbero posato sul cuore.
È arrivato sulla mia pelle, sotto il mio naso e vicino ai miei occhi. Così piccolo… così profumato, così bello.
Me lo hanno posato sul petto e ancora era forte la sensazione che non mi appartenesse davvero, io non sapevo riconoscere il suo volto, ma riconoscevo gli scatti delle gambette, la cadenza dei movimenti che faceva dentro la pancia: in fondo riscontravo una certa familiarità.
Lui su di me era a suo agio, dormiva tranquillo mentre gli accarezzavo la testolina, così come ero solita accarezzare la pancia.
Ho capito che non importava che fossi io a riconoscere lui, perché era lui a riconoscere me.
Ho saputo d’essere sua madre perché lui mi ha mostrato che ero sua madre.
Ho capito che ci sarebbe voluto tempo perché riuscissi ad entrare in contatto con lui.
Mi sono affidata a lui, certa che se lo avessi ascoltato, mi avrebbe guidato.
Mi sono assopita insieme a lui, sulla poltrona in patologia neonatale, mentre Giacomo ci guardava.
Ho trovato un momento di pace, ho potuto cedere parte della tensione.
Ancora lo guardo e non mi capacito che sia qui, che siamo tutti qui. Che siamo vivi, che stiamo bene che lo abbiamo con noi: ce l’abbiamo davvero. Abbiamo tenuto quest’immagine talmente lontana che ci sembra inverosimile che si sia realizzata.
A lui basta la mia mano. Io gli poso la mano sul capo e lui si rasserena… continua a dirmi che sono sua, io gli appartengo e in virtù di questo lui mi appartiene.
Spesso mi fermo a fissarlo, ci guardiamo, occhi negli occhi: è bello, è un bel bambino dai lineamenti fini. Non so dire a chi somigli, trovo che non somigli a nessuno di noi, è troppo bello.
Gli ho promesso che mi sarei presa cura di lui: l’ho guardato e gliel’ho promesso pronunciando quelle parole ad alta voce.
Così ho ceduto un’altra piccola parte di quelle emozioni trattenute.
Lo tengo stretto, molto spesso lo tengo solo per il piacere di tenerlo stretto.
Gli piace stare fra le mie braccia, mi osserva, mi scruta… si fida di me. Mi riconosce sempre.
Molto spesso gli poso una mano sul petto, o un dito sotto al naso e aspetto di sentire il suo respiro. Giacomo fa lo stesso e quando ci accorgiamo dell’apprensione dell’altro, sorridiamo consapevoli che una certa paura non ci passerà mai, non la perderemo più.
Non riesco ancora a chiamarlo per nome: non posso credere d’avere quel figlio che aspettavo, non riesco a capacitarmi che quel nome corrisponda a questo piccolo volto così unico.
Tristano…
Volevamo un lottatore, virile e solido, una personalità carismatica… volevamo che combattesse, di più e fino in fondo.
Speravamo che un nome così fosse capace di regalargli tutta la grinta di cui avesse bisogno.
Lui ha lottato. Ha lottato coi due giri di cordone che aveva serrati intorno al collo, ha lottato perché i suoi polmoni si adattassero alla vita fuori da me, ha combattuto chi lo ha manipolato.
Ha talmente combattuto le mani sconosciute da rompersi un polmone. Si è procurato un pneumotorace per quanto ha pianto, per quanto si è opposto alle cure che gli hanno imposto.
Hanno ventilato l’ipotesi che se lo avessimo lasciato al suo posto fino al termine della gravidanza, non avrebbe avuto quel distress respiratorio evolutosi in pneumotorace… ma se avessimo atteso e i due giri di cordone si fossero serrati irrimediabilmente?
Noi siamo convinti di aver fatto ciò che era meglio, anzi, ringraziamo di avere insistito per anticipare la sua nascita e siamo convinti che sia davvero stato più al sicuro fuori con un distress respiratorio, che dentro con due giri di cordone intorno al collo.
Giacomo ed io ci guardiamo e in silenzio i nostri occhi ci dicono che l’abbiamo scampata bella, questa volta abbiamo avuto fortuna… per un soffio l’abbiamo fra noi… un altro soffio e sarebbe stato anche il suo un nome inciso su una targa di marmo.
In un momento di quiete ho letto attentamente il documento che l’ospedale ci ha fornito per poter registrare in comune la nascita di nostro figlio.
La frase riportata sul documento è:
Erika Zerbini
[…]
ha partorito un figlio nato vivo di sesso maschile.
Ho annuito fra le lacrime…
Questa volta ho partorito.
Questa volta ho partorito un figlio NATO VIVO.

Il brano è tratto da “Nato vivo” (PM edizioni).

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