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Dacia Maraini e il figlio che non è mai nato

DACIA MARAINI

“Quando ho perso mio figlio, con cui conversavo di notte sotto le coperte e a cui raccontavo del mondo aspettando che nascesse; quando a tradimento quel bambino con cui giocavo segretamente e che già tenevo in braccio prima ancora che avesse aperto gli occhi è morto, sono stata sul punto di morire anche io”. 

Lo scrive Dacia Maraini – la scrittrice italiana vivente più conosciuta e tradotta al mondo assieme a Elena Ferrante – in “Corpo Felice”, il suo nuovo romanzo uscito per Rizzoli, che presenta a Roma in una delle giornate più calde dell’anno poco prima di trasferirsi a Pescasseroli, in Abruzzo, dove ha una casa da molti anni. C’è chi dice che quando c’è lei in una stanza, l’atmosfera si ripulisca da sola, visti i suoi modi attenti, delicati e gentili che riesce a trasmettere anche nei suoi libri, un lavoro cristallino e variegato vicino al sociale, alle donne, alla Storia, alle sue esperienze personali espresso poi in romanzi, racconti, opere teatrali, poesie, narrazioni autobiografiche e saggi. In quest’ultimo libro, come aveva già fatto in “Un clandestino a bordo”, torna a parlare della sua maternità mancata, “una maternità onirica”, ma visto che la ferita “è sempre aperta”, lo fa con un maggior distacco e con molta più voglia di inventare. Perdu (questo è il nome del bambino) è stato dentro la sua pancia per sette mesi, ma non è mai nato. Il libro, dunque, parte da un fatto personale, da una ferita, da una perdita. “Ogni donna può capirmi e ogni donna che l’ha provato può capire cosa voglia dire”, ci dice senza mai scomporsi e fissandoci con quei suoi occhi celesti evidenziati da un ombretto che ha lo stesso colore. “Avevo un dialogo con lui e con questo libro ho immaginato di continuarlo ad avere cercando però di capire cosa sia la maternità. La maternità non è solo un fatto naturale, è un modo di stare al mondo, è un valore che cambia secondo i secoli, le condizioni di vita. È un fatto di miti, di iconografie, di leggende, un prodotto culturale vero e proprio”. “La maternità – continua la vincitrice del Premio Campiello (1990) e del Premio Strega (1999) – è un grande momento di crescita in cui si instaura un dialogo col bambino. Ci si sdoppia, crei il tuo doppio, ma c’è anche qualcosa di ambiguo: il figlio va per fatti suoi, ma ci sei tu che lo senti tuo, ben sapendo che non ti può appartenere, perché possedere una persona è schiavitù, ma l’amore materno tende anche a questo. Abbiamo la cultura del possesso, ma spesso questo porta a tragedie terribili, pensate nel caso delle tante donne uccise da uomini che erano stati lasciati. Preferiscono ucciderle più che perderle come amori, ma in realtà, così facendo, le perdono due volte”. 

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