Non tutti i centri offrono la tecnica perché è più complicata, ma usare embrioni al quinto, sesto giorno aumenta la probabilità di successo perché si «selezionano» quelli più fertili già fuori dall’utero.
Non è facile far sviluppare gli embrioni per la fecondazione assistita in incubatore per più di due o tre giorni, servono centri ben attrezzati. Ma quando è possibile farlo può essere una buona soluzione perché trasferirli allo stadio di blastocisti, ovvero a cinque, sei giorni dall’incontro di ovulo e spermatozoo, significa impiantare embrioni più fertili perché a quello stadio fuori dall’utero sopravvivono solo i “migliori”. E così le percentuali di successo salgono, come dimostrano i dati presentati a Bologna al convegno sulla Riproduzione assistita e Diagnosi Prenatale organizzato da GynePro e CECOS Italia.
Risultati migliori
La tecnica prevede di mantenere in vitro l’embrione due o tre giorni in più rispetto al solito: poco, a prima vista, tantissimo in realtà viste le delicate condizioni degli embrioni. «Servono apparecchiature particolari, per esempio sistemi di incubazione che consentano di osservare l’embrione e fare eventuali test attraverso telecamere, senza doverlo estrarre: farlo uscire dall’ambiente controllato avrebbe infatti un impatto negativo – spiega Marco Filicori, presidente di CECOS Italia –. Per questo ancora sono meno della metà del totale i centri italiani che eseguono il trasferimento delle blastocisti; tuttavia quando lo si sceglie i risultati sono decisamente migliori, le percentuali di successo salgono dal 30-35 per cento al 56 per cento rispetto all’uso di embrioni di due o tre giorni. Questo perché far crescere gli embrioni all’esterno fa sì che la selezione che avremmo in utero, quando i più deboli non attecchiscono, avvenga nell’incubatore: il numero di blastocisti che si ottengono e possono essere impiantate è perciò inferiore, ma si tratta di embrioni più maturi con una maggior probabilità di sopravvivenza».