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Oltre le storie: intervista a Giulia Calli (Trent’Anni e Qualcosa)

Lo spazio di oggi della rubrica #oltrelestorie è dedicato a Giulia Calli, autrice del blog “Trent’anni e qualcosa” in cui racconta “Cronache dalla clinica“.

 

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Ciao Giulia, hai lavorato per tre anni in una clinica di riproduzione assistita. Nel tuo percorso avrai sicuramente incontrato molte donne alla ricerca di un figlio.  C’è una storia che ti ha particolarmente colpito?

Durante i miei anni in Clinica ho parlato con centinaia di donne alla ricerca di un figlio: donne che cercavano un figlio con il loro compagno o marito, coppie di donne o donne sole. Molte di loro, soprattutto italiane, hanno condiviso con me la loro storia, come sono arrivate a cercare un figlio e che cammino hanno fatto prima di arrivare alla clinica di Barcellona in cui lavoravo. Ho condiviso momenti intensi con alcune di queste donne, perché sono stata la loro coordinatrice per molto tempo – e purtroppo non sempre i loro trattamenti di fecondazione andavano a buon fine, per cui le ho seguite durante diversi cicli.

La storia che mi ha colpito di più è stata quella di una donna single, con cui avevo instaurato un bellissimo rapporto. Purtroppo la sua relazione non era andata bene, e pur avendo divorziato non aveva voluto rinunciare al suo sogno di diventare madre: aveva già compiuto 40 anni e non voleva rischiare di perdere altro tempo cercando l’”uomo giusto”. Così si era decisa a venire a Barcellona per affrontare da sola un ciclo di fecondazione eterologa: era una donna molto affascinante, ma anche molto insicura. Purtroppo la diagnosi dei medici non le fu favorevole, il ciclo di FIV che fece con i suoi ovuli andò male e la sua riserva ovarica non risultò più sufficiente. Le consigliarono di passare a una doppia donazione e di usufruire sia della banca del seme che di quella degli ovociti. Nel giro di pochi mesi si era ritrovata single, in cerca di una maternità tanto desiderata e senza possibilità di fare un trattamento con i suoi ovociti. Fu in questo momento che lei si appoggiò di più a me, perché l’insicurezza la divorava, e nella sua vita di tutti i giorni non trovava appoggio alla sua scelta. Dopo tanti mesi di tentennamenti e tentativi, era riuscita a rimanere incinta, e di due gemelli: una grandissima gioia per lei, ma di riflesso anche per me, che in tutto quel tempo avevo fatto il tifo per lei.

Questa è una delle cose che mi ha toccato di più dei miei anni di lavoro in Clinica: ho apprezzato il coraggio di tante donne di inseguire il loro sogno di maternità nonostante il giudizio degli altri. Anche quelle più insicure e apparentemente più fragili, riuscivano spesso a trovare una grinta invidiabile nei momenti difficili, a costo di andare contro l’opinione di famiglia e amici.

Nei percorsi di fecondazione assistita l’uomo sembra avere un ruolo marginale, eppure sappiamo bene che l’infertilità è un problema di coppia. Sulla base della tua esperienza, ritieni che effettivamente ci sia un minore coinvolgimento maschile o è solo un luogo comune?

Sono convinta che l’infertilità maschile sia ancora, per molti aspetti, un tabù. Siamo abituati ad associare la maternità con il corpo della donna, relegando il contributo maschile a un atto marginale e che costa ben pochi sforzi. Questo, secondo me, ha contribuito ad allontanare gli uomini dal problema dell’infertilità, e a far ricadere sulla donna gran parte delle colpe della difficoltà di aver figli. Durante il lavoro in Clinica invece ho invece scoperto quanto l’infertilità maschile sia anch’essa una parte importante del problema, e quanto gli uomini non siano sempre pronti a digerire la notizia di essere “parti in causa”. In base alla mia esperienza, direi che effettivamente non c’è parità nel modo in cui uomini e donne sono coinvolti nel problema dell’infertilità.

Moltissimi uomini sono inoltre ancora reticenti all’idea di sottoporsi alle analisi mediche: quante volte ho assistito a discorsi in cui il paziente si lamentava di dover effettuare una semplice analisi del sangue per completare il dossier medico! Mi sembrava un atteggiamento ingiusto, soprattutto di fronte alla lunga lista di esami invasivi che spesso venivano richiesti alle loro compagne.

In generale, direi che c’è ancora molto lavoro da fare sull’educazione alla fertilità: educare anche fin da giovani gli uomini a una buona salute sessuale, li aiuterebbe a essere più consapevoli dei problemi che possono influire sulla fertilità maschile, e soprattutto a considerarsi in ugual modo parte del problema.

Nel tuo blog racconti il senso di colpa che affligge molte donne con problemi di fertilità. Che consigli daresti a chi sta per intraprendere un percorso di fecondazione assistita?

Quelli che sto per dare sono consigli da osservatrice esterna, da donna che non ha provato fisicamente le fatiche di un trattamento di fecondazione assistita, ma che allo stesso tempo ha vissuto veramente da vicino questo processo.
La prima cosa che direi a una donna in procinto di iniziare un trattamento è che non è un cammino facile o scontato. Ho visto tante coppie lottare insieme per coronare un sogno comune, allargare la loro famiglia. Ma ne ho anche viste tante soccombere di fronte allo stress, ai ripetuti risultati negativi, all’instabilità emotiva e alla pressione delle loro famiglie. In secondo luogo, affrontate questo percorso con una buona dose di sana razionalità, sapendo che si tratta di un processo che potrebbe anche non dare i risultati sperati.
E infine la fiducia: abbiate fiducia nei medici che avete scelto e nel protocollo che vi daranno; fiducia in chi vi vuole bene e vi starà vicino, dandovi supporto anche quando la stimolazione ormonale vi renderà più sensibili; ma soprattutto abbiate fiducia in voi stesse , nella vostra forza e in quella del vostro sogno di maternità.

 

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