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Il senso di Smilla per la neve

Salve,

questa non è la mia storia, ma è tratta da un mio romanzo inchiesta, “Vite di Madri. Storie di ordinaria anormalità”, per il quale ho raccolto 151 testimonianze vere di donne infertili e mi sono concentrata sul lato oscuro della maternità, elaborando 12 racconti.

Io sono una donna con l’endometriosi, infertile e con una “collezione “di referti di “sine causa”, ma non ho riportato la mia esperienza nel libro: io sono in tutte le storie e tutte le storie sono in me. Vi dono questo specifico racconto del libro perchè, trattando l’endometriosi, ben si adatta alla mia decisione di devolvere l’intero ricavato dei diritti d’autore all’A.P.E. onlus (Associazione progetto Endometriosi).

 

 

Il senso di Smilla per la neve

 

La neve, così bianca, così fredda e io, così scura, così indomita. Eppure siamo legate.

 

«Nel mondo esterno non esisterà mai un cristallo di neve dalla forma perfetta. Ma nella nostra coscienza c’è l’idea scintillante e impeccabile del ghiaccio perfetto».

 

Ero incinta di poco più di due mesi, e mi toccavo il ventre ancora piatto, incredula.

Avevo concepito naturalmente con un’endometriosi al IV stadio, inaspettatamente, dopo una lunga serie di interventi.

Li ricordo tutti, i miei interventi, a ritmo ciclico. La malattia faceva il suo corso, io la mia corsa, ma restavo sempre indietro.

Mia madre mi comprava sovente camicie da notte bianche, in puro cotone, con balze in pizzo sangallo o piccoli ricami nel carré, non per serbarle, in un angolo dell’armadio, per il mio futuro da sposa, ma per le mie lune di miele in ospedale, dove non mi restava che pronunciare un sì e partire, con una valigia che non mi apparteneva, per una destinazione che non avevo scelto.

Ma avevo vinto la corsa stavolta, la linea rosa apparsa sul test, che stringevo fra le mani, irrorandolo di lacrime, era il traguardo tagliato, il segno, visibile, della mia vittoria.

Io non piango mai, sono stata educata a non cedere. Ho versato, in quei minuti, le lacrime custodite da una vita, dedicandole a mio figlio.

Feci un sogno particolare, la notte prima di eseguire il test rivelatore.

C’era neve, tanta neve, tutta la Piazza Rossa di Mosca piena di neve. Io indossavo un abito bianco candido, proprio io, che mi sono perfino sposata in nero, perché odio le convenzioni e perché non pretendo altro che di essere amata per come sono, nella mia natura oscura e silente, nei miei abissi senza luce, nei miei mille volti senza nome.

 

Apro gli occhi, ancora con l’immagine del sogno, ben nitida.

Mi cullo in un istante di pace. Qui, da noi, la neve è fredda e gelata, appena si poggia sull’asfalto si scioglie e scompare, come l’opera di un illusionista.

Scosto le tende, pesanti, in velluto viola, che mi schermano da tutto, quando voglio.

C’è la neve, oggi. Vado in bagno e, poco dopo, scopro che c’è anche il bimbo.

 

Ma la neve durò poco, il giorno seguente solo fanghiglia stava annidata ai lati delle strade.

Alcuni notti dopo sognai l’aborto: non vi era sangue, camici bianchi o rumore di ferri, solo una struggente sensazione di perdita che avvertivo nello stringere un dito minuscolo, che allentava la presa per consegnarmi il suo addio.

 

Mi sveglio come se mi fosse arrivata una pietra in piena faccia. Le tempie pulsano, il cuore e il respiro tradiscono l’affanno e la disperazione, tutto il mio corpo è gelido e marmoreo, ma il mio basso ventre è rovente, il calore divampa e si estende fino alle cosce, con rivoli di sangue.

Corro in ospedale. Non ricordo il percorso in auto, le voci, le persone: ho risparmiato alla prigione dell’oblio solo due labbra, color rosa pesca, che si muovono, rivolte al mio viso, per formulare una frase, di cui non ricordo le parole, ma solo il senso. È la conferma di quanto già sapevo: è morto. Cerco, fra le mie, la sua manina.

 

«I fiocchi sono come piccole piume, e la neve è così, non necessariamente fredda. Ciò che avviene in questo istante è che il cielo piange su Esajas, e le lacrime si trasformano in piume di ghiaccio che si posano su di lui. È l’universo che in questo modo gli stende sopra una trapunta affinché lui non debba mai più avere freddo».

 

Il giorno successivo al raschiamento, non appena varcai la soglia di casa, ricominciò a nevicare copiosamente, al punto che il paese restò bloccato per giorni. Neve da far piangere, ma io la scorta di lacrime la avevo esaurita, potevo solo sentire il gelo provenire da dentro la pancia. Ero un simulacro di ghiaccio.

Mi sovvenne quasi subito, non appena mi sdraiai sul divano, un ricordo della mia infanzia. Una manina di pelo bianco, orrendamente recisa.

Quando frequentavo ancora la scuola elementare, mio nonno mi faceva assistere ad un macabro rito, pensando che esso rientrasse nelle leggi di natura. Prendeva i conigli e li appendeva ad un albero per una zampetta, poi li lasciava ciondolare a testa in giù e li percuoteva fortissimo per ammazzarli… e loro piangevano. Piangevano davvero.

In seguito, li scuoiava quasi vivi e toglieva tutta la pelle, lasciando solo quella della zampetta attaccata al ramo, e mi diceva: «Vedi la scarpetta del coniglio?».

Il sangue dell’animale colava dal naso e rendeva rossa l’erba sottostante, che, poco dopo, in conseguenza dell’apertura del ventre, avrebbe accolto anche gli organi interni.

Restavo immobile, senza riuscire a scappare. Sapevo, fin da allora, diventare di ghiaccio e non versare lacrime.

 

Il bimbo lo ho chiamato Edward, senza saperne nemmeno il sesso.

Ricordate come esordisce il film Edward mani di forbice, il cui protagonista è un essere incompiuto, come mio figlio?

Inizia con una vocina che chiede: «Perché c’è la neve?» e con una nonna che risponde raccontando una fiaba della buonanotte: tanto tempo fa c’era un ragazzo che aveva, al posto delle mani, le forbici e che, grazie ad esse, realizzava meravigliose sculture di ghiaccio, ma, mentre le sue idee prendevano forma, scendevano, dalle opere in fieri, minuscoli pezzetti… e così si è formata la neve.
Ancora oggi, quando nevica, io sono felice.

È l’unico elemento bianco che mi riporta a casa, dove sento, sulla mia pelle di ghiaccio, il calore delle dita minuscole di mio figlio, che mi plasmano, e le carezze morbide di conigli, intatti e saltellanti, che mi invitano a seguirli.

 

«Forse già allora avevo cominciato a desiderare di capire il ghiaccio. Voler capire significa provare a riconquistare qualcosa che abbiamo perso».

 

Citazioni tratte da: Peter Høeg, Il senso di Smilla per la neve.

tratto da: Emma Fenu, “Vite di Madri. Storie di ordinaria anormalità”, Echos Edizioni, 2015.

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