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Un momento di straripante magia

Potevamo soltanto aspettare.

Che peso, l’attesa! Non potevamo aggrapparci a nulla, se non a quella telefonata. Nessun segnale fisico, nessuna indicazione nel documento che mi aveva rilasciato l’ospedale, nessuna statistica incoraggiante, nessuna esperienza che potesse darci qualche spiraglio. Niente. Dovevamo necessariamente imparare ad attendere.

Ma quella telefonata arrivò, e fu meravigliosa: i miei pochi e sgangherati ovuli, uniti agli spermatozoi di mio marito, avevano prodotto tre embrioni di buona qualità. Potevo presentarmi in ospedale per il trasferimento in utero.

Così feci, da sola. La procedura non richiedeva che la donna fosse accompagnata perché il trattamento era senza anestesia e indolore. “Io sono abituata a cavarmela da sola”, pensai, e condivisi con mio marito che avrebbe potuto risparmiarsi l’onere di un’altra lunga attesa.

Quando mi presentai al solito posto, in ospedale, scoprii che tutte le altre donne presenti erano con i propri compagni. Iniziai ad interrogarmi sul senso di quella scelta. La mia, la loro. Ero più forte? O ero meno disposta ad aprirmi al supporto degli altri? Ero più pragmatica? O non avevo compreso il senso profondo di quel momento? Non ero ancora giunta ad una risposta definitiva quando accanto a me si sedette un’altra donna. Sembrava sola anche lei. Questo mi rassicurò. E iniziammo a parlare.

Finalmente, ero riuscita ad entrare in contatto con una mia sconosciuta compagna di viaggio. Con facilità ci scambiammo pareri, informazioni, esperienze e timori. L’attesa si alleggerì e poi entrammo, quasi insieme.

Eravamo vicine di letto, come il giorno del prelievo. Questo ci consentì di proseguire la nostra chiacchierata per tutto il tempo. E quando fu il momento di salutarci, sentimmo entrambe il desiderio di restare in contatto, scambiandoci i numeri di telefono.

Anche in questa occasione, il via vai tra la sala operatoria, la stanza dei trasferimenti ed il salone con i letti, era frenetico. Sembrava che nulla fosse cambiato, che ogni giorno si ripetesse esattamente uguale al precedente ed al successivo. Per fortuna, anche la calda accoglienza e la simpatia del personale di supporto era una costante.

Un attimo… è il mio turno! Percorro qualche passo per raggiungere la stanza, sento il cuore che inizia a battere forte nel mio petto. E’ buio. La procedura sembra essere seguita a menadito. La biologa mi dà qualche spiegazione. L’infermiera mi aiuta a sistemarmi in posizione ginecologica. C’è un monitor anche davanti a me, mi domando a cosa serva. All’arrivo della dottoressa tutto è pronto. Mi spiega i passi che sta compiendo. L’infermiera, accanto a me, mi indica sul monitor cosa sta succedendo e cosa sto guardando.

Non mi sembra vero. E’ incredibile. Sono senza parole. Distinguo chiaramente la cannula introdotta nell’utero, e improvvisamente vedo esplodere un bagliore dentro di me. Eccoli, sono loro: sono i nostri embrioni! Sono entrati dentro di me accompagnati da una luce. La nostra luce. Per un istante, sento tutta la potenza e la bellezza del miracolo della vita. E l’inestimabile valore del progresso scientifico.

Quello che prima mi sembrava un limite tremendo – non riuscire a concepire un figlio naturalmente – ora mi appare come un’occasione di portata eccezionale: avevo potuto vedere il momento magico in cui io e loro ci eravamo uniti.

“Il trasferimento è perfettamente riuscito, in bocca al lupo signora”. Lo sguardo della dottoressa e delle altre donne presenti nella stanza mi rincuorarono. Fu il primo, vero momento di umanità che sentii in quel travagliato percorso di ricerca.

Aspettai un’ora sdraiata e immobile, come richiesto.

Poi mi avviai verso casa, con la dolce consapevolezza di avere dentro di me il frutto dell’unione tra me e mio marito. Questa volta erano lacrime di emozioni intense, speranze e aspettative. Dentro di me c’era la vita. Una vita da custodire e coltivare con cura. Non mi ero mai sentita così. Era un’esperienza del tutto sconosciuta e travolgente. “Benvenuti amori miei!”, esclamai.

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