La ricerca di una gravidanza per una NataMamma

Non sono mai riuscita ad immaginare la mia vita senza un fagottino da stringere tra le braccia. Mi sono sempre considerata una “NataMamma”

La mia idea di famiglia era quella…ma forse più egoisticamente, sentivo proprio il bisogno atavico di avere una vita dentro di me, di avere la pancia, di dare letteralmente alla luce un figlio.

Impazzivo letteralmente al solo pensiero di non riuscirci.

Questo mio modo di pensare al futuro cozzava molto con quello che sono stata per gran parte della mia vita: una ragazzina ribelle, autonoma, indipendente che per tutto il periodo degli studi e oltre, pensava in primis alla carriera.

Certo avrei voluto realizzarmi professionalmente e poi mettere su famiglia, ma i piani non sempre vanno come ce li siamo prefissati nella nostra mente.

Vita facendo mi sono più volte ritrovata a dover correggere il tiro, rivedere obiettivi, fare un passo indietro sperando di poterne farne due in avanti. Ho fatto scelte sbagliate che hanno pregiudicato la mia carriera. Insomma, è stato tutto in salita fin quando stanca di lottare contro i mulini a vento, ho pensato che fosse giunto il momento di dedicarmi anche alla sfera personale, cosa che negli ultimi anni stavo trascurando.

Avevo un compagno che amavo e desideravo con lui una famiglia. Vivevamo un periodo di precarietà lavorativa, ma rimandare ulteriormente sarebbe stato rischioso a parer mio. Ne abbiamo discusso parecchio. Gli uomini in questo sono più razionali. Devono sentire di avere una certa stabilità per fare certi passi.

Anche io fino ad un certo punto l’avevo pensata così, ma credo che la natura prese il sopravvento. C’erano state delle timide avvisaglie, pensieri che sfioravano la mia mente del tipo “se dovesse succedere in questo momento, perché no? Sarebbe una cosa bellissima”.

Da un giorno all’altro, senza accorgermene mi sono trovata seduta sul pavimento del bagno con le mani tra i capelli tra le lacrime perché il fatidico giorno del mese era arrivato portando le odiate mestruazioni.

Cominciai a spaventarmi, mi faceva paura la mia stessa paura di non poter avere figli.

Di lì a poco cominciai a mettere sotto pressione anche il mio compagno: potete immaginare la sua felicità.

Non mi piace perdere tempo, sono molto pragmatica. Dopo un paio di mesi di tentativi con conseguenti negativi, ho cominciato a fare analisi e ulteriori esami per approfondire.

Ho preteso che anche lui li facesse. Questa è una fase molto particolare.

Ho scoperto che mentre a noi donne si richiede di tutto, ci sottopongono a esami dolorosissimi, invasivi, veniamo trattate con sufficienza e da alcuni operatori sanitari anche con stizza, agli uomini viene riservato un trattamento di favore.

Loro sono poverini quelli stressati da noi arpie, “mamme pancine”, isteriche che li sottopongono a rapporti ripetuti e non voluti, che li trascinano in studi medici senza il loro consenso, che poveri “se li stressi peggiorano le loro prestazioni” perché “loro ne soffrono quanto la donna, ma non lo fanno vedere” (cit.)..

Fatto sta che i nostri esami erano ok, forse qualche valore alterato, ma niente di irreparabile. Tutti fiduciosi (loro) mi dicevano: “Provateci, ci riuscirete”, “Rilassati e sarai mamma”, “Fatevi una vacanza, prendete un cane”, “Ah Signora, ma se lei la prende così, non rimarrà mai incinta. E’ tutta una questione psicologica”.

Meno ottimista io che non ci vedevo chiaro. Comunque ho fatto quanto mi era stato detto. Ho provato a rilassarmi (non sono sicurissima di esserci riuscita). Siamo andati avanti con la nostra vita e con i nostri tentativi più o meno mirati.

Per questi ultimi la lista degli strumenti utilizzati era infinita: test di ovulazioni acquistati online alternati a quelli più seri e costosissimi delle farmacie, app di ogni tipo che suggerivano quale era il periodo giusto per avere rapporto e sulle quali appuntare ogni dettaglio degno di nota, misurazione della temperatura basale (solo questo meriterebbe un capitolo a parte), lubrificanti per la fertilità, integratori di ogni sorta, alimentazione bio, monitoraggi presso gli studi dei più rinomati ginecologi etc etc etc etc etc

Intanto il tempo passava. L’umore seguiva il ritmo del ciclo mestruale: pre – ovulazione = esaltazione, ovulazione = eccitazione pura; post – ovulazione fino alla data del ciclo seguente = euforia. Arrivo del ciclo = morte.

Questa altalena di stati d’animo si rifletteva inesorabilmente sui rapporti umani/sociali.

Voglia di vedere amiche soprattutto con figli pari a 0 (zero). Le discussioni con mio marito cominciavano ad essere in numero superiore rispetto ai momenti idilliaci. Lo sconforto era totale. Sentivo che ogni cellula di me era ormai proiettata verso la risoluzione di questa situazione che mi stava annientando.

Dopo un anno, numerosi specialisti consultati, ogni sorta di esame effettuato, finanze prosciugate, approdo dall’ennesimo ginecologo che mi parla chiaramente: “Sei giovane, se provi ora con la fecondazione perlomeno hai più probabilità di successo”.

Ero stordita e mi chiedevo se avessi sentito bene: Fecondazione Assistita.

Non ci volevo credere. Non capivo. Da un lato ero sollevata perché almeno mi stava dando una strada concreta da seguire e avrei smesso di fare l’amore in modo meccanico; dall’altro ero distrutta. Sentii la parte fanciullesca che era ancora dentro di me abbandonarmi tutta d’un colpo.

Ero Donna all’improvviso con un peso immenso da sopportare ed accettare.

Non era una malattia mortale, non era una condanna a morte, ma sentivo come se fosse entrambe queste cose insieme.

Volevo fare delle domande, chiedere se valesse ancora la pena tentare da soli e pregare madre natura, ma non mi usciva niente. Non ho più emesso un suono tranne un timido grazie mentre mi consegnava il bigliettino del centro che si occupava di PMA e che avrebbe dovuto seguirmi.

Arrivata a casa avevo già deciso: avrei intrapreso quel percorso. Vedevo una luce in fondo al tunnel.

Il mio Lui era turbato, non era d’accordo. Questo avrebbe compromesso la nostra relazione, era chiaro.

Cambiò idea poco dopo. Da quel momento in avanti fu un susseguirsi di telefonate, appuntamenti e burocrazia. Solo questa parte tutta nuova implica uno sforzo che prosciuga gran parte delle energie.

Ovviamente tutto da incastrare con impegni lavorativi di entrambi. Un vero inferno!

Finita questa fase cominciai il percorso terapeutico vero e proprio. Un’altra fase. Un nuovo inizio che ogni giorno portava via un pezzettino di me.

Dal momento in cui presi la decisione di farmi aiutare dalla scienza al fine di realizzare il mio sogno di maternità, fui un treno in corsa dotato di solo accelleratore. Nienti freni. Avevo in mente solo la destinazione. Il viaggio mi spaventava certo, ma avevo più paura dell’immobilità. Di rimanere ferma in una stazione vuota, silenziosa, senza caos.

Certo è stato come sulle montagne russe. Ma mai ho pensato di scendere. E’ stato spaventoso, crudele, forte, ma sono riuscita ad arrivare alla mia meta. Qualcosa di impagabile.

Seguire un piano terapeutico di una procreazione assistita significa fare i conti anche con i propri mostri. I miei erano le famose iniezioni. Eccoli là gli odiatissimi aghi, le penne/siringhe piene di ormoni da iniettare sulla pancia. Il secondo giorno del ciclo ebbi l’OK dal Centro PMA per iniziare. Piansi un paio di ore. Ero seduta col bugiardino in mano per leggere le istruzioni, ma le lacrime me lo impedivano. Il mio Lui venne a darmi sostegno. E PIC… fuori una.

Ero sollevata e pensai “Dai, credevo fosse peggio…”

Seguirono giorni di controlli ecografici, dosaggi ormonali fino al Pick Up. Non fu piacevole. Per giorni fui fisicamente provata. Ma c’era poco da star male: mi confermarono il Transfer di lì a poco.

Tutto ciò ovviamente veviva fatto tra permessi di lavoro, occhiatacce dei colleghi e capi, corse per non accumulare ritardi e destare sospetti. Tenersi in bilico e uscirne viva è un vero miracolo.

IL POST TRANSFER

Puoi andare al mare, lavorare 28 ore al giorno, partire per Marte, ma l’unico e solo pensiero che ti martella la testa è “Sarò incinta?”.

Ho conosciuto Donne che hanno seguito alla lettera i consigli medici e aspettato le benedette Beta; altre le hanno anticipate, altre ancora hanno cominciato a fare test di gravidanza a raffica.

Indovinate in quale categoria mi colloco io?

In ogni caso, l’esito per me fu positivo. Cavolo che fortuna. Primo tentativo andato bene. Ero incinta. Non riuscivo a crederci. Non ci credevo infatti. Rimasi quasi impassibile. Avevo paura a ostentare la mia felicità. Ebbi ragione. Durò molto poco. Il sogno si infranse presto

LA DISPERAZIONE

Piansi, piansi, piansi tutte le lacrime del mondo. Il dolore mi lacerava e ho desiderato per la prima volta in vita mia di morire. Non c’era rimedio, nessun tipo di conforto. Era troppo da sopportare, impossibile descrivere. Ero dilaniata.

Nella corsia dell’ospedale c’era un via vai di pance, volti felici, risate. Ero spalle al muro. Scivolai lentamente sul pavimento fino a ripiegarmi su me stessa. Ero completamente schiacciata dal dolore.

Non esiste altra parola per descrivere quello che sentivo.

Non so come ne sia uscita. Forse la speranza di riprovarci e la vicinanza stavolta molto più forte del mio adorato Lui.

E così fu.

E POI FINALMENTE TU

Qualche mese dopo riprovammo e andò bene. Nove mesi non vissuti come nelle favole.

L’ansia ha avuto la meglio anche in questo caso, ma alla fine l’ho stretto tra le mie braccia.

Ricordo una sensazione in particolare della nascita di mio figlio. Nonostante le fatiche prima, durante e post…ero finalmente serena, stanca, ma serena e…completa.

Sentivo che da quel momento in avanti tutto poteva accadere, ma io ero lì con lui, e lui con me. Per sempre. Questo mi bastava. Uno stato di grazia che non avevo provato neanche durante la gravidanza.

La mia è una storia a lieto fine. Nonostante questo mi ha segnata e cambiata per sempre.

Spero che possa aiutare altre donne a trovare coraggio per non mollare e intraprendere la strada più idonea per realizzare il sogno di maternità.

Vi abbraccio tutte dal profondo del mio cuore.

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