Lettera a un bambino che è nato

Potrei raccontarti che sei stato concepito lungo le sponde di un fiume africano, in mezzo alle radici annodate di una foresta cambogiana, tra le terminazioni al cielo delle torri di Angkor, sotto gli sguardi dolci delle apsara, spiriti femmina delle nubi e delle acque.
Potrei sussurrarti che le stelle stavano a guardare mentre la luce di una luna crescente illuminava il tuo ingresso alla vita donandoti la sua energia, o che una vecchia chiromante dalla folta capigliatura e dagli occhi obliqui più scuri della notte lesse il nostro futuro nelle righe della mia mano annunciandomi il tuo arrivo.

Ma, piccolo mio, nessuna storia, nessuna magia, fiaba o favola che io possa inventare per te può contenere più amore di quello che mamma e papà hanno impiegato nel loro viaggio per venirti a cercare.
Prendo il tuo visino tra le mani mentre le tue, piccole e soffici nuvole di primavera, mi toccano il volto. Allora, come una barca di carta tra le onde, mi perdo nella grandezza dell’amore smisurato che provo per te.

Allora tutto si ferma, il tempo, lo spazio, le bussole dei nostri cuori e mi rendo conto che sono tua madre: per sempre e nonostante tutto.

Ti porterò lontano, piccolo uomo. Cambierò la realtà con un solo gesto e, solleticandoti la pancia, inventerò posti e luoghi che solo la nostra immaginazione ci farà raggiungere. Saremo re, soldati, draghi e principesse. Raggiungeremo il vento e il sole, spinti di là dall’infinito mare, oltre i tuoni e le saette e guarderemo ciò che gli altri non potranno mai vedere. Andremo su, più su, dove il vero non è vero, oltre ciò che si chiama fantasia. Oltre i nostri limiti. Ti stringerò, bisbigliandoti all’orecchio che nessun posto ha confini che non si possono solcare, ti regalerò sogni che cambieranno il tuo mondo, rendendoti ogni giorno più forte.

Da dove mi sia nata l’idea di amarti in questo modo bizzarro, io proprio non lo so.
Forse, facevi già parte di me prima ancora che tu nascessi e il lungo viaggio verso te ha solo reso più ampi i confini del mio amore.

Per circa due anni, giorno dopo giorno, mama e papà hanno spostato i loro confini un pò più il là, fino a quando la volgia di te è diventata così grande, ma così grande che i nostri cuori, non potendoti più contenere, si sono messi in viaggio verso te. La chiamano Pma, procreazione medicalmente
assistita.

Io preferisco pensare che tutte le procedure chirurgiche, ormonali, farmacologiche, tutti i metodi
impiegati per aiutarci a procreare, siano stati solo le fasi di un lungo, fantastico, faticoso, viaggio verso te.
Profumi di lavanda, di bucato appena steso. Mi ricordi l’emozione di certe giornate di primavera,
quando il cielo è così limpido che trattieni il fiato perchè un solo respiro potrebbe offuscarlo, svanendo improvvisamente, per sempre. Mi sento fiera e orgogliosa, sono stata brava. Ho retto difronte alle delusioni, al senso di inadeguatezza e  a quello di colpa, a quel misto di vergogna e colpevolezza che solo chi ha problemi d’infertilità conosce.

Occorre aver intrapreso il viaggio verso un figlio per capire che l’infertilità è la malattia del vuoto; l’assenza di quel bambino tanto desiderato ti lacera come un lutto e con essa perdi la proiezione di te nel futuro. Se sei donna, sei difettata, non sai procreare, non sei idonea a fare quello per cui biologicamente sei stata programmata, e il male è fisico oltre che mentale. Se sei uomo, il male è forse più mentale.
Indipendentemente dalle cause, l’infertilità è un male di entrambi e accettarlo è doloroso.

Devi accettare che quello che per altri è così naturale, quasi ovvio, per te è solo una lontana possibilità, quello che per altri è gioia, per te è dolore. E nessun supporto psicologico, nessun consiglio lenisce
il senso di devastante inadeguatezza. Anche se a volte può aiutare ad arginarlo.
Occorre essere stati là, nella terra dell’infertilità per capire quanto ci si possa sentire, fieri e coraggiosi e, contemporaneamente, fragili e persi. Ognuno di noi, viaggiatore in quella terra, almeno una volta, si è sentito sia in paradiso sia all’inferno.

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